venerdì 14 settembre 2012

La grande trasformazione

Nel suo libro più famoso, “La grande trasformazione”, Karl Polanyi critica il fondamento antropologico del liberismo economico.
Secondo Adam Smith il fondamento dell’attività economica dell’uomo è la "propensione al baratto, al commercio e allo scambio di una cosa con l’altra" (p. 58).
Polanyi viceversa scrive: "Nonostante il coro di invenzioni accademiche tanto insistente nel diciannovesimo secolo, il guadagno e il profitto nello scambio non hanno mai prima svolto una parte importante nell’economia e per quanto l’istituzione del mercato fosse abbastanza comune a partire dalla tarda Età della Pietra, il suo ruolo era soltanto incidentale nei confronti della vita economica" (p. 57). E continua dicendo che nelle società studiate dagli etnografi moderni si rileva “l’assenza del motivo del guadagno, l’assenza del principio del lavoro per una remunerazione, l’assenza del principio del minimo sforzo e, in particolare, l’assenza di qualunque istituzione separata e distinta basata su motivi economici" (p. 62). In tali società "l’economia dell’uomo, di regola, è immersa nei suoi rapporti sociali. L’uomo non agisce in modo da salvaguardare il suo interesse individuale nel possesso di beni materiali, agisce in modo da salvaguardare la sua posizione sociale, le sue pretese sociali, i suoi vantaggi sociali” (p. 61).

Quindi per Polanyi è la posizione, o status, sociale e non il guadagno monetario, che costituisce la motivazione antropologica fondamentale dell’agire economico dell’uomo.
Ma se noi riflettiamo sulla natura della moneta che è un credito generico nei confrotti dei beni prodotti da una società, cioè potere di acquisto “astratto” che tramite il mercato si concretizza in possesso o controllo di beni o lavoro (che sul mercato del lavoro è in vendita), notiamo che la differenza tra guadagno monetario in una società di mercato e status sociale in una società non di mercato, non sono poi tanto diversi tra loro nei fini.
In una società non di mercato beni e prestazioni di lavoro non sono in vendita. Secondo le modalità descritte da Polanyi nel capitolo quarto, possono essere ottenuti o con l’economia domestica auto-producendoli (con l’aiuto dei familiari, che hanno obblighi di obbedienza) oppure con la reciprocità (scambi duali, spesso nella forma del dono ricambiato) o con la redistribuzione (accentramento della produzione nella casa del “capo” che opera la redistribuzione). Ma le quote di beni e prestazioni da lavoro ottenibili con queste modalità erano molto probabilmente correlate allo status sociale, che a tutti gli effetti svolgeva quindi, in una economia non di mercato, le funzioni che la moneta ha in una economia di mercato, cioè la funzione di credito “generico” e di potere di acquisto. Non vi era altro modo socialmente accettato per ottenere potere di acquisto.

Quando, come descritto da M. Hudson in questo articolo, i primi mercati formali furono organizzati, nell’area sud-mesopotamica dell’età del bronzo, per esigenze di approvigionamenti di materiali (ferro, pietre e legname duro) non disponibili in quelle fertili pianure alluvionali, questi furono relegati in centri separati dalle comunità, in luoghi sacralizzati (recinti dei templi) ove furono anche elaborati i primi strumenti per operare il commercio tra comunità che vivevano a grande distanza e non potevano avere rapporti di reciprocità: unità di misura condivise, monete e prime regole contrattuali, validate da riti religiosi (la sacralità dava garanzie contro le truffe e per la incolumità dei mercanti). Mercati e monete colmarono il gap della lunga distanza tra comunità (le ricerche di Polanyi sulle origini del commercio portano al commercio sulle lunghe distanze come fonte delle pratiche commerciali), mentre nell’ambito interno alla comunità continuarono a lungo a vigere rapporti non contrattuali e lo status sociale di fatto era moneta.

A proposito delle forme socialmente accettate per ottenere benefici economici, M. Hudson, che con il suo gruppo di ricerca ha ripreso e continuato i lavori di Polanyi, sottolinea il rifiuto etico da parte delle comunità primitive, nei confronti di comportamenti individuali volti al guadagno e all’arricchimento personale. E con questo rifiuto etico egli spiega anche la necessità di relegare il commercio a fini di lucro in aree circoscritte (templi, palazzi, case del capo, empori in area di transito al di fuori del territorio della comunità, ecc..) che non interferissero con la vita economica della società. Il commercio a fini di lucri doveva essere sempre percepito come un vantaggio per l’intera comunità, quindi o era svolto sotto il controllo di una funzione pubblica, che rappresentava gli interessi collettivi, o doveva essere sottratto “alla vista” della comunità.

Ora questa riprovazione nei confronti del guadagno personale vorrei provare ad interpretarla in senso “creditizio” oltre che etico.

Ciò che mi sento di suppore, più che una riprovazione del guadagno personale che, come detto, di fatto si verificava, anche se tramite status sociale anziché moneta, è un giustificato timore dei membri delle comunità ad economia non di mercato nei confronti di aperture e scambi con l’esterno.
Il sistema che regola gli scambi in una comunità deve sempre essere in qualche modo un sistema chiuso, anche se al limite può raggiungere la dimensione spaziale enorme dell’attuale mercato globalizzato. Ciò che è fondamentale rimanga chiuso è il sistema degli obblighi reciproci per cui chi ha acquisito crediti, o perché ha investito energie di braccia e mente per la comunità, o perché, fortunato lui, i crediti li ha ereditati, vuole la certezza della esigibilità. Che questi crediti siano moneta o status sociale ha poca importanza, ma non deve essere rotto il vincolo degli obblighi reciproci, altrimenti i crediti non valgono più nulla.

Ora la rottura del vincolo del credito, il “default” assume forme diverse in una economia di mercato rispetto ad una economia di status.
In una economia di mercato assume la forma della bancarotta del creditore (nazionale o estero). In una moderna economia con moneta legale, non a base aurea, inflazione o iper-inflazione sono simili alla bancarotta, poiché riducono o annullano il potere di acquisto del creditore.
In una economia basata sullo status il default assume invece la forma della rottura o allentamento dei vincoli non contrattuali (parentela, comunità di credo religioso, ecc..) di obbligazione reciproca, rottura che riduce il valore dei crediti di un individuo derivanti dalla sua posizione sociale.
Ad esempio, in una economia domestica familiare un figlio che fugge a cercare fortuna altrove, equivale ad una bancarotta, perché per il capofamiglia il lavoro futuro del figlio era un credito che egli si era guadagnato generandolo e allevandolo, ma che con la fuga viene azzerato.
Un membro della comunità che si procura beni commerciando al di fuori della comunità e quindi diventando autonomo dalla rete protettiva della comunità, sente meno i propri obblighi. Questo equivale esattamente ad una inflazione monetaria, perchè riduce il potere di acquisto di tutti i membri della comunità che avevano relazioni con lui e avevano qualche credito di reciprocità nei suoi confronti.
Anche oggi, pur vivendo in una economia di mercato molto sviluppata, noi ancora viviamo rapporti non contrattuali (con parenti, amici, colleghi, ecc...). La perdita, il tradimento, l’allontanamento di uno di loro ci impoverisce certo affettivamente ma spesso anche per la perdita delle sue prestazioni, quindi possiamo capire cosa poteva provare un individuo, in una società primitiva dove mezzi di sostentamento e crediti dipendevano esclusivamente da vincoli non contrattuali con i membri della comunità, quando la sua comunità si apriva allo scambio e alla libera circolazione e chi aveva debiti sociali aveva un modo per sottrarvisi.
Tanti tratti tipici delle comunità chiuse che ci appaiono odiosi perché limitano l’autonomia e la libertà di movimento degli individui, trovano in queste considerazioni una loro motivazione.

Quanto detto rende problematica la valutazione dell’impatto sconvolgente della costruzione “artificiosa” dei liberi mercati autoregolantesi, avvenuta nel corso del XIX secolo, che Polanyi ha così bene descritto.

E’ vero che la distruzione sistematica della rete di protezione sociale garantita dai vincoli non contrattuali, per “liberare” e rendere disponibile come merce il lavoro di mente e di braccia dell’uomo, ha comportato sofferenze indicibili. Il tutto poteva essere fatto forse in modi e tempi diversi. Il capitalismo nella sua dinamica competitiva ha sempre troppa fretta; il tempo è denaro e la velocità è successo. Ma dobbiamo considerare che in una società dove gli scambi sono non contrattuali, i debiti e gli obblighi si moltiplicano, imprigionando completamente l’individuo e facendo della sua autonomia un pericolo per il benessere economico della società.

L’economia di mercato ha liberato le potenzialità dell’individuo, esponendolo però a nuovi rischi, che esso ha dovuto affrontare dapprima in solitudine, con incredibili fatiche e sofferenze, poi via via con nuove forme di protezione sociale che gli sono state concesse, ma che sono continuamente messe in discussione.
Il motivo delle sofferenze prima e della messa in discussione delle protezioni oggi è sempre lo stesso. Come dice Polanyi il mercato autoregolato non è mai esistito in natura, esso è una costruzione umana, artificiosa, che determinate forze sociali hanno realizzato per promuovere i loro interessi e che hanno saputo imporre alla collettività in un nuovo patto sociale che nel costituzionalismo democratico liberale ha trovato la cornice giuridica e politica. Il grande successo in termini di produttività della organizzazione economica di mercato ha procurato vantaggi e consenso, ma anche problemi a cui si è cercato di far fronte con protezioni sociali, e crisi, anche molto gravi, che periodicamente la mettono in discussione.
Ma gli interessi che hanno dato vita al mercato, e ora lo hanno esteso su tutto il globo, sono sempre attivi e non smettono di chiedere più produttività e meno costi per la protezione sociale. Il loro argomento è sempre lo stesso, sin dai tempi delle polemiche di inizio XIX secolo sulle leggi britanniche per i poveri (Poor Law): se si danno troppe protezioni la gente non lavora, il sistema non rende e crolla, tutti i sacrifici fatti per costruirlo andranno perduti e si avrà miseria per tutti. Il che purtroppo è un rischio reale, intanto però le ricchezze di pochi crescono a dismisura in un mondo a cui si chiedono sacrifici per aumentare la produttività.

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